SELVA: RIDARE VITA ALLA VAL VEDDASCA

C’è chi parte da un territorio, cercando di attivarlo con la cultura.

Selva nasce in Val Veddasca, in una zona marginale, con l’idea di mettere in dialogo musica elettronica, paesaggio e comunità. Non è solo un festival, ma un processo lento, costruito nel tempo, senza forzature.

Le risposte sono di Diego Santin.

• Quando parliamo di “scena”, a cosa ci stiamo riferendo davvero? In che modo un festival come il vostro entra in relazione con questo concetto?

Per noi “scena” significa comunità attiva che crea e condivide linguaggi culturali, al di fuori delle logiche commerciali. Selva si inserisce in questa visione dando spazio a musica, arti visive e pratiche relazionali, creando un contesto dove l’esperienza collettiva ha un valore centrale, e contribuendo a dare nuova vita a un territorio spesso dimenticato.


Quali sono le sfide concrete che affronta oggi un festival indipendente in Italia?

Le difficoltà principali riguardano la burocrazia e l’accesso a risorse economiche, ma anche una certa disconnessione tra istituzioni, pubblico e nuove pratiche artistiche. Manca spesso un linguaggio comune e una visione a lungo termine, sia sul piano culturale che amministrativo.

Qual è il vostro criterio curatoriale nella scelta degli artisti?

Cerchiamo artisti capaci di costruire connessioni, non solo performance. Selezioniamo nomi di nicchia, spesso legati al territorio o ad altre scene indipendenti, che possano portare qualità ma anche aprire spazi di confronto e contaminazione culturale.

• Cosa significa per voi costruire un’esperienza culturale, non solo musicale?

Vuol dire integrare più linguaggi: musica, arte visiva, narrazione, cucina, tradizione orale. Ogni elemento del festival è pensato per raccontare e valorizzare la Val Veddasca, offrendo un’immersione totale che va oltre il live o il dj set.

• Che tipo di responsabilità sentite, oggi, come festival, rispetto a ciò che accade nella scena?

Sentiamo la responsabilità di proporre un’alternativa sostenibile, in cui la cultura non sia solo intrattenimento ma anche strumento di consapevolezza e riconnessione. Crediamo nel valore del “tempo lento”, nel creare contesti dove la cura, il territorio e le relazioni siano messi al centro.

• Che tipo di impatto può avere un festival come il vostro sul territorio in cui si svolge?

L’obiettivo è riattivare un’area marginale come la Val Veddasca attraverso una proposta culturale che coinvolga residenti e pubblico esterno. Vogliamo costruire un ponte tra il locale e l’altrove, contribuendo alla valorizzazione e alla rigenerazione del territorio con modalità rispettose e partecipative.

• Quali sono le dinamiche locali, sociali o politiche, con cui vi confrontate quando organizzate il festival?

C’è una parte della comunità che ci accoglie con entusiasmo e un’altra più diffidente, ma mai ostile. Il dialogo con l’amministrazione è stato fin da subito positivo, e questo ha reso possibile una collaborazione concreta sul piano logistico e culturale.


• E se la scena non fosse un mercato, ma un ecosistema da proteggere? Cosa fareste per proteggerlo?

Continueremmo a dare spazio a chi ha qualcosa da raccontare, senza badare al nome o al CV. Crediamo che il valore di un festival stia nell’atmosfera che genera, non nei biglietti venduti o nei follower degli ospiti. Proteggere la scena significa proteggerne l’anima.

• In che modo vi relazionate con le altre realtà che compongono la scena? C’è dialogo o frammentazione?

Collaboriamo con realtà affini, soprattutto sul Lago Maggiore. C’è voglia di dialogare, di costruire una rete informale ma solida, basata su valori condivisi. Più che competizione, vediamo alleanze possibili.

C’è qualcosa che nessuno vi chiede mai, ma che secondo voi andrebbe raccontato?

Le storie, i miti e le tradizioni della Val Veddasca. È un territorio con una memoria profonda, spesso trascurata. Rimetterla in circolo è parte integrante del progetto culturale che vogliamo portare avanti.

• Come si finanzia oggi un festival come il vostro?

Principalmente tramite bandi pubblici e il sostegno dell’amministrazione locale. Gli ingressi coprono una parte dei costi, ma non sarebbero sufficienti da soli. Il nostro modello è ibrido e cerca ogni anno nuovi equilibri.

• Quando vi siete sentiti realmente “dentro” qualcosa che potremmo chiamare scena? Vi siete sentiti parte di un processo collettivo più ampio della vostra realtà? E cosa ve lo ha fatto percepire?

Quando abbiamo iniziato a dialogare con altre realtà che condividevano approcci simili, e quando abbiamo percepito che le persone venivano a Selva non solo per gli artisti, ma per il contesto. Le domande e i messaggi dopo ogni edizione ci fanno sentire parte di qualcosa che va oltre noi.

Andrea Distefano

Community Radio & Event Space live from a subway station, Milano - Cairoli M1

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