Photo: Karen Righi @karen__righi

C’è chi organizza festival per riempire cartelloni. E poi c’è chi, da quasi vent’anni, costruisce un linguaggio.
Dancity nasce e resiste a Foligno, nel cuore dell’Umbria, come una presenza discreta ma costante. Non fa rumore, ma lavora. Non segue le mode, ma apre spazi. È da qui che abbiamo scelto di partire.
La Scena Non Esiste è un atlante collaborativo della musica elettronica italiana.
Non cerca risposte semplici, ma connessioni complesse. A ogni realtà incontrata, poniamo le stesse domande.
Quelle che seguono sono le risposte di Dancity.
E fanno parte di qualcosa che – forse – assomiglia a una scena. Lo stiamo scoprendo insieme.

Ne abbiamo parlato con Sara Presilla, responsabile comunicazione e ufficio stampa Dancity.

Quando parliamo di “scena”, a cosa ci stiamo riferendo davvero?

Per noi “scena” non è un insieme di eventi o artisti, né un’etichetta estetica. È una comunità fluida, fatta di relazioni, luoghi, idee, tensioni creative e politiche. Una scena esiste quando le persone si riconoscono in un linguaggio comune, anche se mutevole, e lo attraversano in modo attivo, partecipato, talvolta critico.

In che modo un festival come il vostro entra in relazione con questo concetto?

Dancity nasce dentro una scena, ma non per fotografarla: piuttosto per metterla in movimento. La nostra relazione con la scena è dinamica, a volte conflittuale, mai celebrativa. Invitiamo artisti che stanno spostando i confini, creiamo spazi in cui linguaggi differenti si incontrano senza gerarchie e soprattutto ascoltiamo le trasformazioni culturali in corso, anche quelle più scomode.

Quali sono le sfide concrete che affronta oggi un festival indipendente come il vostro?

L’indipendenza è un atto di resistenza. Le sfide sono tante: sostenibilità economica, accesso alle risorse pubbliche, crescente burocratizzazione dei processi culturali e una certa superficialità dell’industria musicale che spesso riduce tutto a un contenuto da monetizzare. Ma la sfida più grande è mantenere uno sguardo radicale senza diventare autoreferenziali.

Qual è il vostro criterio curatoriale nella scelta degli artisti?

Non ci interessa cavalcare i trend. Ci interessa quello che accade prima che un suono diventi moda, o dopo che ne è uscita tutta la patina. Cerchiamo artisti con una visione, non solo una carriera. E curiamo i contesti in cui si esibiscono, per far emergere le connessioni tra musica, spazio, tempo e ascolto.

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Cosa significa per voi costruire un’esperienza culturale, non solo musicale?

Significa uscire dalla logica del “cartellone” e costruire una narrazione. Significa dare attenzione anche al silenzio, al paesaggio, alla memoria collettiva. A volte significa creare frizioni, far emergere contraddizioni. Per noi è importante che il pubblico non consumi, ma si trasformi, anche solo per una notte.

Che tipo di responsabilità sentite, oggi, come festival, rispetto a ciò che accade nella scena?

Sentiamo la responsabilità di non fare finta di niente. Di prendere posizione quando serve, di offrire uno spazio reale a chi non ce l’ha, di non alimentare l’ansia da prestazione che soffoca molti artisti. Ma anche di prenderci cura di chi partecipa, ascoltando i bisogni di una generazione spesso sfruttata e disillusa.

Photo: Karen Righi @karen__righi

Che tipo di impatto può avere un festival come il vostro sul territorio in cui si svolge?

Negli anni, abbiamo contribuito a modificare la percezione di una città come Foligno, da luogo di passaggio a spazio di sperimentazione. Un festival può aprire brecce nel quotidiano, trasformare gli immaginari locali, generare connessioni durature. Ma solo se non arriva “da fuori”, bensì cresce insieme alla comunità.


Quali sono le dinamiche locali, sociali o politiche, con cui vi confrontate quando organizzate il festival?

Operare in una città di provincia significa confrontarsi ogni giorno con tensioni tra innovazione e conservazione. Bisogna dialogare con istituzioni che a volte non comprendono il linguaggio della contemporaneità, con operatori economici disillusi, con una cittadinanza che cambia. Eppure è proprio qui che può nascere qualcosa di autentico.

E se la scena non fosse un mercato, ma un ecosistema da proteggere?

Lo è. E come ogni ecosistema fragile, ha bisogno di ascolto, diversità, equilibrio. Proteggerlo significa anche rallentare, sottrarsi alla bulimia dell’hype, difendere spazi non profit, e ridare valore alla qualità delle relazioni, non solo alla visibilità.

Cosa fareste per proteggerlo?

Stiamo già cercando di farlo: costruendo alleanze, creando progetti editoriali come Dancity Mag, mantenendo rapporti etici con gli artisti, promuovendo pratiche accessibili e sostenibili. E, quando serve, dicendo di no.

In che modo vi relazionate con le altre realtà che compongono la scena? C’è dialogo o frammentazione?

Entrambe le cose. C’è dialogo con chi condivide una visione, anche se con forme diverse. Ma c’è anche frammentazione, alimentata dalla precarietà, dalla competizione per le risorse, e da un certo narcisismo diffuso. Noi cerchiamo sempre di scegliere la cooperazione, anche quando costa più fatica.

Photo: Karen Righi @karen__righi

Andrea Distefano

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